«Educare, innovare, imprendere». Sono le parole chiave con cui Giovanni Cottino, 90 anni, spiega il suo progetto di magnate-filantropo: supportare ogni anno, con oltre 100 mila euro presi dalla sua fortuna di imprenditore, le start up e la ricerca di un giovane scienziato. A patto che trasformi la ricerca in un prodotto. E visto che molti giovani che si sono candidati lavorano anche all’estero, c’è un’altra condizione: devono impiantare in Italia la loro start up. Negli anni d’oro, Cottino è arrivato ad avere 1200 dipendenti e aziende con un fatturato annuo di 250 milioni di euro. «Negli Anni 80 e 90, il 93 per cento degli elettrodomestici come frigoriferi e lavatrici in tutto il mondo – racconta – aveva componenti prodotti dalle mie imprese».  Una laurea da ingegnere meccanico nel 1950 al Politecnico di Torino, prima manager e poi imprenditore di successo, fondatore di aziende come Plaset, Ceset, Olmo, che poi ha venduto alla multinazionale Emerson, una decina d’anni prima della crisi e della delocalizzazione. C’è poi la Trasma, oggi in mano alla nipote Cristina Di Bari, che fa fili di rame per cavi elettrici. Cottino non ha avuto figli e ha creato una fondazione, intitolata a premio cottinolui e alla moglie scomparsa, Annamaria, per devolvere alla ricerca parte del patrimonio, «per restituire alla società un’esperienza e un successo – anche economico – che non può rimanere fine a se stesso».  Si ispira al Venture Philantropy, l’investimento di capitali per finalità sociali. Il mecenatismo è un filone importante per la ricerca, che fa i conti coi sempre più scarsi fondi pubblici. «Non siamo solo finanziatori di start up – mette le mani avanti Cottino – seguiremo tutto il cammino, dalla ricerca all’impresa».  E, da filantropo a 360 gradi, parla di «economia della qualità», di produttività legata a rispetto dell’ambiente e dei diritti umani. Anche per questo la fondazione, nata nel 2002, ha finanziato progetti come la costruzione, con mezzo milione di euro, di un nuovo edificio per un oratorio salesiano torinese.  Il maggio scorso a Milano, s’è tenuta la premiazione dell’edizione di quest’anno del concorso, che si chiama significativamente «Applico» ed è centrato sull’oftalmologia. Il premio è andato ad Eye CoDe, dispositivo che rende più facile il trapianto di cornea: fa una misurazione del punto esatto in cui fare la dissezione, che oggi è affidata all’esperienza del chirurgo: «Così diminuisce la dipendenza dell’esito dell’intervento dal fattore umano», si legge nella motivazione della giuria.  L’idea è di Alfonso Iovieno, professore di oftalmologia di Arcispedale Santa Maria Nuova in Emilia Romagna. Il premio è nato due anni fa, il primo vincitore è stato D-Eye, strumento portatile per lo screening di patologie sistemiche, che ha raccolto oltre 1 milione e mezzo di euro di investimenti. «Riservato come i torinesi sanno esserlo, ma anche carismatico coi suoi operai – così Cristina Di Bari descrive lo zio – la ricerca è nel suo Dna, come imprenditore se n’è sempre avvalso. Apriremo il premio dall’oculistica alle altre branche della medicina».(Da “La Repubblica” 30.5.2017)